Beni tutelati: anche gli ingegneri possono effettuare interventi
NORMATIVA
Beni tutelati: anche gli ingegneri possono effettuare interventi
Si può disapplicare l’art. 52 del Regio Decreto 2537/25 che attribuisce competenza esclusiva agli architetti
05/12/2007 - Anche gli ingegneri civili, oltre agli architetti, possono occuparsi della direzione dei lavori su immobili vincolati.
Lo ha affermato il Tar del Veneto con la sentenza n. 3630 del 15 novembre 2007, accogliendo il ricorso di un ingegnere al quale la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici aveva negato l’autorizzazione al subentro nella direzione dei lavori su un immobile sottoposto alla tutela ex DLgs 490/1999, affermando che tale attività era di esclusiva competenza degli architetti, ai sensi dell'art. 52, II comma del RD n. 2537/25.
Secondo il ricorrente la mancata equiparazione della laurea in ingegneria civile a quella in architettura violava la direttiva comunitaria n. 384 del 10 giugno 1985, ora sostituita dalla direttiva n. 36/2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, e recepita in Italia dal DLgs n. 206 del 9 novembre 2007 (leggi tutto).
I giudici, prima di pronunciarsi, hanno interpellato la Corte di giustizia europea sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85, chiedendo, in particolare, se le disposizioni nelle quali si precisa che il titolo di ingegnere civile è equiparato, ai fini dell’accesso ai servizi nel settore professionale dell’architettura, a quello di architetto, imponessero ad uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto i propri laureati in ingegneria civile che avessero seguito un percorso didattico conforme agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
La Corte di giustizia si è pronunciata affermando che la direttiva n. 384/85 non si occupa del regime giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia, ma solo del “reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura”.
Secondo la Corte, dunque, la normativa nazionale può riservare ai soli architetti i lavori sugli immobili di interesse storico artistico sottoposti a vincolo; tuttavia la direttiva in questione esclude che tale riserva possa operare anche nei confronti dell’ingegnere civile che abbia conseguito il titolo abilitativo in altro Stato membro seguendo un ciclo formativo rispondente agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
Quindi, l’eventuale discriminazione “al rovescio” che potrebbe colpire il professionista italiano costituisce, secondo la Corte di giustizia, questione meramente interna che lo Stato italiano deve risolvere nel proprio ordinamento.
La disparità di trattamento attuata dall’art. 52 del RD n. 2537/25 è, dunque, evidente, dal momento che agli ingegneri civili laureatisi in Italia è impedito l’accesso ad attività professionali che lo Stato non può, invece, vietare agli ingegneri civili che hanno ottenuto il titolo in altri Stati membri. L’art. 52 del RD n. 2537/25 viola, dunque, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione: tale constatazione è sufficiente per accogliere il ricorso ed annullare l’impugnato provvedimento, previa disapplicazione della richiamata norma.
Ma la disapplicazione dell’art. 52 del RD n. 2537/25 trova fondamento e giustificazione anche nel contrasto della norma nazionale con la normativa europea: la norma in questione, limitando l’attività degli ingegneri che abbiano conseguito il titolo in Italia attraverso un percorso formativo analogo a quello degli architetti, contrasta palesemente con il principio comunitario (recepito dall’Italia con il DLgs n. 129/92) che, espresso dalla direttiva n. 384/85, stabilisce la equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile ed architetto.
In altre parole, nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, offre al giudice italiano un parametro normativo per la disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea.
Ricordiamo che sullo stesso argomento era giunto ad una conclusione opposta il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 5239 dell’11 settembre 2006, aveva affermato che sui progetti di restauro la competenza è esclusivamente degli architetti (leggi tutto).
Lo ha affermato il Tar del Veneto con la sentenza n. 3630 del 15 novembre 2007, accogliendo il ricorso di un ingegnere al quale la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici aveva negato l’autorizzazione al subentro nella direzione dei lavori su un immobile sottoposto alla tutela ex DLgs 490/1999, affermando che tale attività era di esclusiva competenza degli architetti, ai sensi dell'art. 52, II comma del RD n. 2537/25.
Secondo il ricorrente la mancata equiparazione della laurea in ingegneria civile a quella in architettura violava la direttiva comunitaria n. 384 del 10 giugno 1985, ora sostituita dalla direttiva n. 36/2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, e recepita in Italia dal DLgs n. 206 del 9 novembre 2007 (leggi tutto).
I giudici, prima di pronunciarsi, hanno interpellato la Corte di giustizia europea sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85, chiedendo, in particolare, se le disposizioni nelle quali si precisa che il titolo di ingegnere civile è equiparato, ai fini dell’accesso ai servizi nel settore professionale dell’architettura, a quello di architetto, imponessero ad uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto i propri laureati in ingegneria civile che avessero seguito un percorso didattico conforme agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
La Corte di giustizia si è pronunciata affermando che la direttiva n. 384/85 non si occupa del regime giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia, ma solo del “reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura”.
Secondo la Corte, dunque, la normativa nazionale può riservare ai soli architetti i lavori sugli immobili di interesse storico artistico sottoposti a vincolo; tuttavia la direttiva in questione esclude che tale riserva possa operare anche nei confronti dell’ingegnere civile che abbia conseguito il titolo abilitativo in altro Stato membro seguendo un ciclo formativo rispondente agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
Quindi, l’eventuale discriminazione “al rovescio” che potrebbe colpire il professionista italiano costituisce, secondo la Corte di giustizia, questione meramente interna che lo Stato italiano deve risolvere nel proprio ordinamento.
La disparità di trattamento attuata dall’art. 52 del RD n. 2537/25 è, dunque, evidente, dal momento che agli ingegneri civili laureatisi in Italia è impedito l’accesso ad attività professionali che lo Stato non può, invece, vietare agli ingegneri civili che hanno ottenuto il titolo in altri Stati membri. L’art. 52 del RD n. 2537/25 viola, dunque, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione: tale constatazione è sufficiente per accogliere il ricorso ed annullare l’impugnato provvedimento, previa disapplicazione della richiamata norma.
Ma la disapplicazione dell’art. 52 del RD n. 2537/25 trova fondamento e giustificazione anche nel contrasto della norma nazionale con la normativa europea: la norma in questione, limitando l’attività degli ingegneri che abbiano conseguito il titolo in Italia attraverso un percorso formativo analogo a quello degli architetti, contrasta palesemente con il principio comunitario (recepito dall’Italia con il DLgs n. 129/92) che, espresso dalla direttiva n. 384/85, stabilisce la equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile ed architetto.
In altre parole, nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, offre al giudice italiano un parametro normativo per la disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea.
Ricordiamo che sullo stesso argomento era giunto ad una conclusione opposta il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 5239 dell’11 settembre 2006, aveva affermato che sui progetti di restauro la competenza è esclusivamente degli architetti (leggi tutto).