
I requisiti energetici della nuova Direttiva EPBD per gli edifici non residenziali
RISPARMIO ENERGETICO
I requisiti energetici della nuova Direttiva EPBD per gli edifici non residenziali
L’obiettivo è raggiungere le emissioni zero entro il 2050 e avere un parco edilizio completamente decarbonizzato
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del 20/01/2025

20/05/2024 - Dopo un lungo iter di approvazione, il giorno 8 maggio 2024 è stata finalmente pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, la Direttiva 1275/2024/UE sulla prestazione energetica degli edifici, cioè la Direttiva EPBD (Energy Performance of Buildings Directive), giunta alla sua quarta edizione (EPBD IV).
Come più volte detto, questa Direttiva fa parte di un pacchetto più ampio di misure, denominato "Fit for 55%", che costituisce il piano europeo per una “transizione verde”. Gli edifici sono ovviamente chiamati in causa, con l’obiettivo, molto ambizioso, di raggiungere le emissioni zero entro il 2050. In altre parole, il target è quello di arrivare ad avere, entro tale data, un parco edilizio completamente decarbonizzato.
In un precedente articolo, abbiamo già fatto una panoramica delle principali novità del nuovo testo rispetto al precedente. In questo articolo, invece, faremo un approfondimento verticale su uno degli articoli della Direttiva. Ci concentreremo quindi sull’articolo 9 “Norme minime di prestazione energetica per edifici non residenziali e traiettorie per la ristrutturazione progressiva del parco immobiliare residenziale”. Iniziamo l’analisi dagli edifici non residenziali, rimandando a un prossimo articolo il discorso sui residenziali.
Come si evince dal titolo, tale articolo 9 risulta piuttosto importante, poiché fornisce le indicazioni che gli Stati Membri devono seguire al fine di determinare quelli che saranno i futuri requisiti energetici minimi degli edifici. Nell’approfondire questo aspetto, dobbiamo quindi fare un doppio sforzo: da un lato capire cosa chiede la Direttiva e, dall’altro, provare ad ipotizzare come verrà declinato tutto ciò nel recepimento nel nostro Paese.
Andiamo quindi con ordine e iniziamo l’esame dell’articolo. I primi commi parlano appunto di edifici non residenziali. La Direttiva dice, in pratica, che gli Stati Membri sono chiamati per prima cosa a fare una fotografia del parco immobiliare non residenziale al 1° gennaio 2020.
Da questa situazione “di partenza” verranno poi calcolate le soglie. Quindi è particolarmente rilevante il “come” viene scattata questa fotografia (con che edifici e come saranno raggruppati). La Direttiva dice che gli indicatori, espressi in kWh/m2 per anno, possono essere in energia primaria o energia finale. Su questo punto, direi che possiamo già sbilanciarci e dire che il nostro Paese, molto probabilmente, baserà i propri ragionamenti sull’energia primaria, dato che tutta la decennale storia sui requisiti minimi in Italia si è basata sulla primaria e non sulla finale.
Ma ritorniamo alla fotografia da scattare al 1° gennaio 2020. La Direttiva dice che gli Stati membri possono stabilire soglie massime di prestazione energetica riguardo al parco immobiliare non residenziale nel suo complesso o per tipo e categoria di edifici. Anche su questo punto, ci possiamo sbilanciare dicendo che è verosimile differenziare per tipologia: gli edifici non residenziali, infatti, abbracciano categorie molto eterogenee, anche dal punto di vista dei servizi e dei consumi energetici. Si passa dagli uffici alle scuole, dagli ospedali ai ristoranti.
È veramente impensabile raggruppare tutti questi edifici e creare soglie e requisiti energetici comuni a tutti. Anche perché, così facendo, si obbligherebbe alla riqualificazione solamente le categorie che per loro natura sono più energivore. E se questo, a prima vista, potrebbe non essere sbagliato, in realtà, approfondendo la questione, si capisce che non è la strada corretta, poiché contrasterebbe con il principio dell’utilizzo efficace delle risorse e della cost-optimality a livello di sistema Paese. Differenziare per categoria di edifici è quindi il minimo. Non solo: la Direttiva non lo dice esplicitamente, ma forse sarebbe il caso di differenziare (stabilire soglie differenti) a seconda della zona climatica. Perché questo? È molto semplice: se non si differenziasse per zona climatica, la soglia risulterebbe una media tra gli edifici delle zone climatiche.
Teniamo conto che il servizio preponderante è comunque il riscaldamento e quindi risulta che gli edifici nelle zone climatiche più fredde hanno un EP (indice di energia primaria) globale (cioè, facendo la somma di tutti i servizi) mediamente più alto rispetto a quello delle zone più calde. Ne risulterebbero requisiti minimi che imporrebbero uno sforzo maggiore (un numero maggiore di edifici da riqualificare) per le zone climatiche fredde rispetto a quelle calde.
La figura seguente, tratta dal Rapporto annuale 2020 sulla Certificazione Energetica degli edifici di Enea e Cti, mostra appunto questo fatto. La figura si riferisce ai soli edifici non residenziali (per gli edifici residenziali, le differenze tra zone climatiche sono ancora più accentuate).

Nota: si è scelto come riferimento per questi ragionamenti il Rapporto nella sua edizione passata del 2020 poiché la Direttiva chiede di effettuare questi ragionamenti al 1° gennaio 2020.
Ultimo aspetto che si potrebbe mettere sul tavolo nel ragionamento su come scattare le fotografie, e quindi di come creare i raggruppamenti degli edifici influendo sulle soglie e conseguentemente determinando quali edifici dovranno essere riqualificati, è il discorso sui servizi energetici. Facciamo un esempio, considerando gli edifici di una stessa categoria (gli uffici) e di una stessa zona climatica.
Mettiamo tutti questi edifici in ordine a seconda della loro prestazione energetica. Gli edifici con kWh/m2 più alto sono quelli peggiori? Sì e no. Sicuramente sono i più energivori, ma magari semplicemente perché offrono “servizi” in più (pensiamo alla climatizzazione estiva e alla ventilazione meccanica). In altre parole, un edificio dotato di tecnologie migliori potrebbe consumare di più, ma solo appunto perché offre più servizi o una qualità dell’aria interna maggiore. E dal punto di vista dell’analisi costi benefici, riqualificare edifici dotati di tecnologie già piuttosto buone non è efficacie. Ora, fare un ragionamento per servizi nel calcolo dei “raggruppamenti” non è semplice, anche tenendo conto dei dati a disposizione (per alcune categorie di edifici non residenziali, non sono molti a livello statistico). Tuttavia, la Direttiva permette esclusioni a seguito di un’analisi costi-benefici degli interventi, quindi magari questo aspetto può essere gestito a posteriori.
Ma continuiamo con l’esame dell’articolo 9. La Direttiva dice che gli Stati membri escludono dallo scenario di base gli edifici non residenziali che esentano dai requisiti minimi. Gli Stati Membri possono infatti scegliere di escludere:
a) edifici ufficialmente protetti in virtù dell’appartenenza a determinate aree o del loro particolare valore architettonico o storico, o altri edifici del patrimonio, nella misura in cui il rispetto delle norme implichi un’alterazione inaccettabile del loro carattere o aspetto, o laddove la loro ristrutturazione non sia tecnicamente o economicamente fattibile;
b) edifici adibiti a luoghi di culto e allo svolgimento di attività religiose;
c) fabbricati temporanei con un tempo di utilizzo non superiore a due anni, siti industriali, officine ed edifici agricoli non residenziali a basso fabbisogno energetico, nonché edifici agricoli non residenziali usati in un settore disciplinato da un accordo nazionale settoriale sulla prestazione energetica;
d) edifici residenziali che sono usati o sono destinati ad essere usati meno di quattro mesi all’anno o, in alternativa, per un periodo limitato dell’anno e con un consumo energetico previsto inferiore al 25 % del consumo che risulterebbe dall’uso durante l’intero anno;
e) fabbricati indipendenti con una superficie utile coperta totale inferiore a 50 m2;
f) edifici di proprietà delle forze armate o del governo centrale e destinati a scopi di difesa nazionale, ad eccezione degli alloggi individuali o degli edifici adibiti a uffici per le forze armate e altro personale dipendente dalle autorità preposte alla difesa nazionale.
Tutti questi edifici potrebbero, quindi, non comparire nella fotografia. Ciò non dovrebbe creare particolari difficoltà, pensando ad un recepimento della Direttiva nel nostro Paese, poiché quelli elencati sono più o meno sono gli edifici che sono già esclusi oggi dal campo di applicazione del D.Lgs 192/05 e smi.
Ciò detto, ritorniamo quindi sul discorso delle soglie. A partire dalla fotografia o, meglio, le fotografie scattate al 1° gennaio 2020, gli Stati Membri dovranno calcolare due soglie, del 16% e del 26%. Il 16% e il 26%, in pratica costituiscono i percentili degli edifici ordinati secondo le loro prestazioni energetiche. E gli obblighi imposti dalla Direttiva nel suo articolo 9 riguardano appunto queste due soglie: dal 2030 tutti gli edifici non residenziali dovranno essere portati sotto la soglia del 16% e a partire dal 2033 sotto la soglia del 26%.
L’obiettivo è sicuramente ambizioso. Un po’ di lavoro è già stato fatto e dal 2020 la situazione è già migliorata. Tuttavia, il tempo non è molto, anche perché il 2030 sembra lontano, ma per cambiamenti su larga scala come questo, è veramente molto vicino.
In conclusione, ricordiamo inoltre che l’entrata in vigore della Direttiva è prevista il ventesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta, tranne per gli articoli 30, 31, 33, 34 che si applicheranno a decorrere dal 30 maggio 2026.
Gli Stati Membri hanno due anni di tempo per il recepimento a livello nazionale.
Come più volte detto, questa Direttiva fa parte di un pacchetto più ampio di misure, denominato "Fit for 55%", che costituisce il piano europeo per una “transizione verde”. Gli edifici sono ovviamente chiamati in causa, con l’obiettivo, molto ambizioso, di raggiungere le emissioni zero entro il 2050. In altre parole, il target è quello di arrivare ad avere, entro tale data, un parco edilizio completamente decarbonizzato.
In un precedente articolo, abbiamo già fatto una panoramica delle principali novità del nuovo testo rispetto al precedente. In questo articolo, invece, faremo un approfondimento verticale su uno degli articoli della Direttiva. Ci concentreremo quindi sull’articolo 9 “Norme minime di prestazione energetica per edifici non residenziali e traiettorie per la ristrutturazione progressiva del parco immobiliare residenziale”. Iniziamo l’analisi dagli edifici non residenziali, rimandando a un prossimo articolo il discorso sui residenziali.
Come si evince dal titolo, tale articolo 9 risulta piuttosto importante, poiché fornisce le indicazioni che gli Stati Membri devono seguire al fine di determinare quelli che saranno i futuri requisiti energetici minimi degli edifici. Nell’approfondire questo aspetto, dobbiamo quindi fare un doppio sforzo: da un lato capire cosa chiede la Direttiva e, dall’altro, provare ad ipotizzare come verrà declinato tutto ciò nel recepimento nel nostro Paese.
Andiamo quindi con ordine e iniziamo l’esame dell’articolo. I primi commi parlano appunto di edifici non residenziali. La Direttiva dice, in pratica, che gli Stati Membri sono chiamati per prima cosa a fare una fotografia del parco immobiliare non residenziale al 1° gennaio 2020.
Da questa situazione “di partenza” verranno poi calcolate le soglie. Quindi è particolarmente rilevante il “come” viene scattata questa fotografia (con che edifici e come saranno raggruppati). La Direttiva dice che gli indicatori, espressi in kWh/m2 per anno, possono essere in energia primaria o energia finale. Su questo punto, direi che possiamo già sbilanciarci e dire che il nostro Paese, molto probabilmente, baserà i propri ragionamenti sull’energia primaria, dato che tutta la decennale storia sui requisiti minimi in Italia si è basata sulla primaria e non sulla finale.
Ma ritorniamo alla fotografia da scattare al 1° gennaio 2020. La Direttiva dice che gli Stati membri possono stabilire soglie massime di prestazione energetica riguardo al parco immobiliare non residenziale nel suo complesso o per tipo e categoria di edifici. Anche su questo punto, ci possiamo sbilanciare dicendo che è verosimile differenziare per tipologia: gli edifici non residenziali, infatti, abbracciano categorie molto eterogenee, anche dal punto di vista dei servizi e dei consumi energetici. Si passa dagli uffici alle scuole, dagli ospedali ai ristoranti.
È veramente impensabile raggruppare tutti questi edifici e creare soglie e requisiti energetici comuni a tutti. Anche perché, così facendo, si obbligherebbe alla riqualificazione solamente le categorie che per loro natura sono più energivore. E se questo, a prima vista, potrebbe non essere sbagliato, in realtà, approfondendo la questione, si capisce che non è la strada corretta, poiché contrasterebbe con il principio dell’utilizzo efficace delle risorse e della cost-optimality a livello di sistema Paese. Differenziare per categoria di edifici è quindi il minimo. Non solo: la Direttiva non lo dice esplicitamente, ma forse sarebbe il caso di differenziare (stabilire soglie differenti) a seconda della zona climatica. Perché questo? È molto semplice: se non si differenziasse per zona climatica, la soglia risulterebbe una media tra gli edifici delle zone climatiche.
Teniamo conto che il servizio preponderante è comunque il riscaldamento e quindi risulta che gli edifici nelle zone climatiche più fredde hanno un EP (indice di energia primaria) globale (cioè, facendo la somma di tutti i servizi) mediamente più alto rispetto a quello delle zone più calde. Ne risulterebbero requisiti minimi che imporrebbero uno sforzo maggiore (un numero maggiore di edifici da riqualificare) per le zone climatiche fredde rispetto a quelle calde.
La figura seguente, tratta dal Rapporto annuale 2020 sulla Certificazione Energetica degli edifici di Enea e Cti, mostra appunto questo fatto. La figura si riferisce ai soli edifici non residenziali (per gli edifici residenziali, le differenze tra zone climatiche sono ancora più accentuate).

Nota: si è scelto come riferimento per questi ragionamenti il Rapporto nella sua edizione passata del 2020 poiché la Direttiva chiede di effettuare questi ragionamenti al 1° gennaio 2020.
Ultimo aspetto che si potrebbe mettere sul tavolo nel ragionamento su come scattare le fotografie, e quindi di come creare i raggruppamenti degli edifici influendo sulle soglie e conseguentemente determinando quali edifici dovranno essere riqualificati, è il discorso sui servizi energetici. Facciamo un esempio, considerando gli edifici di una stessa categoria (gli uffici) e di una stessa zona climatica.
Mettiamo tutti questi edifici in ordine a seconda della loro prestazione energetica. Gli edifici con kWh/m2 più alto sono quelli peggiori? Sì e no. Sicuramente sono i più energivori, ma magari semplicemente perché offrono “servizi” in più (pensiamo alla climatizzazione estiva e alla ventilazione meccanica). In altre parole, un edificio dotato di tecnologie migliori potrebbe consumare di più, ma solo appunto perché offre più servizi o una qualità dell’aria interna maggiore. E dal punto di vista dell’analisi costi benefici, riqualificare edifici dotati di tecnologie già piuttosto buone non è efficacie. Ora, fare un ragionamento per servizi nel calcolo dei “raggruppamenti” non è semplice, anche tenendo conto dei dati a disposizione (per alcune categorie di edifici non residenziali, non sono molti a livello statistico). Tuttavia, la Direttiva permette esclusioni a seguito di un’analisi costi-benefici degli interventi, quindi magari questo aspetto può essere gestito a posteriori.
Ma continuiamo con l’esame dell’articolo 9. La Direttiva dice che gli Stati membri escludono dallo scenario di base gli edifici non residenziali che esentano dai requisiti minimi. Gli Stati Membri possono infatti scegliere di escludere:
a) edifici ufficialmente protetti in virtù dell’appartenenza a determinate aree o del loro particolare valore architettonico o storico, o altri edifici del patrimonio, nella misura in cui il rispetto delle norme implichi un’alterazione inaccettabile del loro carattere o aspetto, o laddove la loro ristrutturazione non sia tecnicamente o economicamente fattibile;
b) edifici adibiti a luoghi di culto e allo svolgimento di attività religiose;
c) fabbricati temporanei con un tempo di utilizzo non superiore a due anni, siti industriali, officine ed edifici agricoli non residenziali a basso fabbisogno energetico, nonché edifici agricoli non residenziali usati in un settore disciplinato da un accordo nazionale settoriale sulla prestazione energetica;
d) edifici residenziali che sono usati o sono destinati ad essere usati meno di quattro mesi all’anno o, in alternativa, per un periodo limitato dell’anno e con un consumo energetico previsto inferiore al 25 % del consumo che risulterebbe dall’uso durante l’intero anno;
e) fabbricati indipendenti con una superficie utile coperta totale inferiore a 50 m2;
f) edifici di proprietà delle forze armate o del governo centrale e destinati a scopi di difesa nazionale, ad eccezione degli alloggi individuali o degli edifici adibiti a uffici per le forze armate e altro personale dipendente dalle autorità preposte alla difesa nazionale.
Tutti questi edifici potrebbero, quindi, non comparire nella fotografia. Ciò non dovrebbe creare particolari difficoltà, pensando ad un recepimento della Direttiva nel nostro Paese, poiché quelli elencati sono più o meno sono gli edifici che sono già esclusi oggi dal campo di applicazione del D.Lgs 192/05 e smi.
Ciò detto, ritorniamo quindi sul discorso delle soglie. A partire dalla fotografia o, meglio, le fotografie scattate al 1° gennaio 2020, gli Stati Membri dovranno calcolare due soglie, del 16% e del 26%. Il 16% e il 26%, in pratica costituiscono i percentili degli edifici ordinati secondo le loro prestazioni energetiche. E gli obblighi imposti dalla Direttiva nel suo articolo 9 riguardano appunto queste due soglie: dal 2030 tutti gli edifici non residenziali dovranno essere portati sotto la soglia del 16% e a partire dal 2033 sotto la soglia del 26%.
L’obiettivo è sicuramente ambizioso. Un po’ di lavoro è già stato fatto e dal 2020 la situazione è già migliorata. Tuttavia, il tempo non è molto, anche perché il 2030 sembra lontano, ma per cambiamenti su larga scala come questo, è veramente molto vicino.
In conclusione, ricordiamo inoltre che l’entrata in vigore della Direttiva è prevista il ventesimo giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta, tranne per gli articoli 30, 31, 33, 34 che si applicheranno a decorrere dal 30 maggio 2026.
Gli Stati Membri hanno due anni di tempo per il recepimento a livello nazionale.